La scultura non ha una forma in sé ma è la sua forma
Alberto Zanchetta
La ricerca di Giovanni Termini potrebbe enuclearsi con chiarezza a partire dalla mostra personale inaugurata a Bologna nel 2008. Il paradigmatico titolo dell’esposizione, “Zero”, individua infatti «uno stadio dove tutto può accadere e in cui qualsiasi elemento può intervenire e dare vita ad infinite possibilità». In questa dimensione azzerata/depotenziata confluisce tutto ciò che è possibile, probabile e plausibile; in particolare, il punto zero suggerito dall’artista equivale a un vuoto che è il comune denominatore dello spazio e del tempo. Ed è proprio da questo vuoto che Termini attinge le forme che ancora attendono di essere pensate e che necessitano di essere esternate, ma che in questo vuoto verranno poi riassorbite, temporaneamente o definitivamente. Fatto salvo che la condizione esistenziale dell’opera non può prescindere dallo spazio (espositivo) e dal tempo (di decorrenza dell’esposizione), ogni mostra è l’occasione per ex-porre, per portare cioè fuori dal vuoto un’idea che cercherà di materializzarsi. Allo stesso modo in cui i filosofi affermano che “nulla è impensabile”, l’artista può prendere coscienza di quello che sarà il proprio fare e quale dovrà essere la sua opera in rapporto a questo vuoto epistemologico – luogo sgombero di materia ma gravido di informazioni e suggestioni.
Da un punto di vista storicistico, il fascino sublime del grado zero aveva pigmentato una buona parte delle ricerche estetiche del secolo scorso. Nel 1923 Malevič affermava che «se l’arte ha compreso l’armonia, il ritmo e la bellezza, ha compreso lo zero». Quarant’anni più tardi, Mack, Piene e Uecker sottoscriveranno un manifesto programmatico in cui il numero zero è equiparato a un Nuovo Idealismo: «Zero è il silenzio. Zero è il principio. Zero è tondo. Zero è Zero». Dalle avanguardie fino al postmoderno, molti artisti si erano auspicati una misticheggiante sintesi e una radicale oggettività che riduceva ogni ambiguità, interpretazione o espressività. Ma se nel loro caso si tendeva a una graduale e nevralgica convergenza allo zero, inteso come epicentro di un’esiziale rottura con la tradizione, per Giovanni Termini è invece uno snodo fondamentale tra passato e presente, viatico che non presuppone un sistema dottrinale né un’estetica della perfettibilità. Egli inizia dal vuoto pneumatico per accrescerne la misura, giacché lo zero equivale a un “contenitore dell’infinito”.
Termini approccia il vuoto monolitico così come facevano i Maestri del passato alle prese con i blocchi di marmo, intravedendo in esso le forme da codificare e significare. Per mezzo di questa “proiezione intellettualizzata” l’artista traduce le energie in massa, ossia in un insieme costituente-interrelato-cumulativo. Com’è ovvio si tratta di una traduzione isomorfa, autoderminata dagli elementi che la regolano: l’opera è indivisibile malgrado le sue parti continuino a essere scindibili. È come se all’artista interessassero le loro unità di misura ancor più che i loro insiemi. Quanto ai materiali, essi veicolano l’informazione mentre il loro grado di organizzazione ne determina il sistema d’appartenenza (le Arti Visive). In una nostra conversazione, Termini ha ammesso di aver «sempre pensato che il vuoto in senso assoluto non esista. Prendi per esempio l’esperimento che John Cage condusse nella camera anecoica. Cage si aspettava di fare esperienza del silenzio assoluto, ma dovette constatare la presenza di almeno due suoni che provenivano dal suo stesso corpo: il battito cardiaco e il fluire del sangue nelle vene. Lo stesso vale per lo spazio, solo apparentemente vuoto, nel quale l’opera viene a collocarsi: magari privo di oggetti (ma questo non è ancora il vuoto), ma pieno di una storia minima, anche residuale se vogliamo, con la quale i miei lavori sono portati a misurarsi». Figurandosi e spazializzando questo vuoto/zero, l’artista arriva a concepire uno degli interventi più emblematici del suo iter creativo, Delimitare una zona sospesa [2009], in cui un pvc applicato a parete riprende la rete plastificata che delimita i lavori in corso. Lo sviluppo lineare della recinzione si configura in un ouroborus che corrisponde a un circolo metodico ancor più che vizioso; spazio circolare che induce a pensare a un perpetuo work in progress, intrappolato in una forma e in una temporalità che sono destinate a esaurirsi per poi rigenerarsi. L’idea verrà ripresa e sviluppata nel successivo Zona limitata [2010] dove il pvc è applicato direttamente a pavimento, mentre un cuneo in acciaio è adagiato all’interno della circonferenza. L’impressione generale è quella di una bussola che indica l’inclusione (dell’arte) o l’esclusione (del pubblico), in realtà la recinzione circoscrive un ambiente pieno di insidie, non dissimile dai cantieri edili. Questo limite invalicabile è all’origine di altre due installazioni, Tentativo di ripresa [2014] e Strani buchi tra le palizzate [2015], l’ultimo dei quali presenta una colonna di blocchi in calcestruzzo transennata da una gabbia in ferro zincato. Nel corso degli anni l’idea sarà riproposta anche nelle due versioni di Quattro giorni in vetrina [2010], così come in Knauf [2011], mentre un analogo sviluppo zero-centrico è all’origine di Girogiromondo [2012], opera composta dalle maglie e dai rivetti di una catena da bicicletta che si avviluppano su se stesse, suggerendo una forza centripeta che non può più disperdersi. Forse inconsciamente, o comunque indirettamente, l’artista pare aver assimilato e reinterpretato le proposizioni spiraliformi di Mario Merz senza però contrarre alcun debito con l’Arte povera, lezione tenuta a mente seppur debitamente allontanata.
Si è detto che Giovanni Termini equipara lo spazio a un cantiere, un ambiente dove le opere vengono definite da tautologici lavori in corso: «il cantiere, con i suoi gesti operativi seriali, i suoi materiali accatastati che sono già forma prima che la mano dell’uomo intervenga a conferirgliene una, è sempre stato per me luogo di seduzione e fonte continua di ispirazione. La scelta dei materiali è spesso dovuta al fatto che essi stessi altro non sono che il tramite o la sovrastruttura per arrivare alla forma finale, la quale non mi interessa quanto il lavoro intrapreso per raggiungerla». I materiali preformati e premeditati veicolano i loro referenti culturali, di cui Termini ne accetta – senza mai subire – la fascinazione. Coniugando tubi innocenti, pannelli prefabbricati e colate di cemento, l’artista ottiene delle forme-tipo, o per meglio dire, delle “forme-fondamentali” che non sono obbligate a essere qualcosa di troppo diverso da ciò che sono in realtà. Non v’è dubbio, infatti, che ogni materiale preservi la propria qualità e identità: c’è in Termini un purismo della forma che non viene mai inquinato, proprio perché «la tecnica esprime non soltanto l’utile, ma l’arte. Ogni oggetto fabbricato, del resto, ben eseguito da un buon artefice, ha una sua bellezza, proprio come un corpo ben formato». Ideale al quale sembra aderire lo stesso Termini allorquando decide di prelevarsi della sostanza ematica per incapsularla all’interno di Riverbero [2007], innescando un gioco di specchi che è parossistico e persino ontologico.
È opportuno ricordare che Termini ricorre sovente a materiali predisposti al montaggio, specificità che connatura la sua ricerca non già tra le forme scolpite bensì tra quelle assemblate, che per converso restano delle forme scomponibili. Ad esempio: la peculiarità di Divaga ma non troppo [2008] è data dal fatto che le casse issate sui tubolari sono tenute assieme da fasce a pressione oppure da ventose, quasi abiurassero l’ermeticità dei chiodi e delle viti. Né saldati né imbullonati, i materiali rimangono in perfetto equilibrio facendo percepire allo spettatore una tensione/precarietà che sfida le leggi gravitazionali e che talvolta nega il proprio peso specifico, così come accade nei diafani, quasi evanescenti containers della serie In Attesa [2007-2008]. Cinghie, ventose e nastro isolante dichiarano una certa labilità delle opere, i cui elementi si incastrano, si sostengono e si bilanciano vicendevolmente, restando pur tuttavia precari, finanche effimeri, in quanto l’artista si riserva «la possibilità di liberare, con un semplice gesto, lo stesso che occorre per allentare una fascia o sganciare una ventosa, una forma inedita e nuova».
La medesima intenzione si ritrova nell’installazione In pedana [2009] che consiste in un ponteggio di tubi zincati che solleva da terra le casse di legno e vetro che vi sono adagiate sopra. È una sorta di struttura geodetica che, mettendo in relazione due ambienti, viene dotata di una rampa d’accesso senza prevedere una relativa discesa. Un initium ad libitum che concettualmente si estende in profondità, oltre i limiti fisici dello spazio espositivo. Ovviamente il ponteggio di Termini non appartiene alla categoria dei “palchi scenici” (che inducono lo spettatore a guardare), è anzi uno spazio praticabile, ma solo in teoria. Gli elementi angolari della pedana potrebbero continuare a sommarsi come in un’equazione, proprio perché i materiali possono essere giustapposti e disgiunti di continuo, secondo una prassi strutturalista che individua l’invariabile nella varietà. La peculiarità di una struttura scomponibile è infatti alla base delle casse in legno o vetro disseminate nelle personali a Bologna e Macerata, oltre che nella monumentale installazione Zona Franca [2006]. Queste casse-contenitori occupano lo spazio e lo contengono a loro volta, sennonché: il vero contenitore delle forme, a detta di Giovanni Termini, non è lo spazio bensì il tempo.
Ancor più che sculture o assemblaggi, queste opere dovrebbero essere considerate come progetti. Malgrado la loro oggettualità smentisca già in partenza l’idea del progetto (che è qualcosa in divenire), l’ipotesi viene avvallata dalla loro “intermittenza”: le installazioni di Termini non esistono in senso assoluto ma soltanto in modo relativo, quando cioè vengono esposte in una mostra. Esaurita la “temporalità” con cui sono chiamate a dialogare, vengono scomposte e immagazzinate. Marc Augé ha spiegato che «la contemporaneità non è l’attualità. […] Per essere contemporanei c’è bisogno del passato e del futuro», assioma che possiamo mettere in relazione con i tre cilindri che compongono l’opera Presente passato e futuro [2007]. Seppur differenti, i marmi si equivalgono per conformazione e ingombro, stabilendo un graduale passaggio dal Bianco Carrara al Grigio Tao fino al Nero Marquinia. L’interrelazione segna così le tappe di un incessante cimento contro l’inesorabile scorrere del tempo, che l’artista cerca di rallentare o fermare. In quasi tutte le sue opere esiste infatti un tempo interno e un tempo storico che tendono a coniugarsi con lo spazio pubblico e privato.
Contrariamente al mito della creazione e del nuovo, Termini adotta un approccio più realistico e pragmatico, prodigandosi nel [ri]pensare e [ri]elaborare le forme preesistenti. L’evoluzione creatrice diventa quindi una parabola di intuizioni e di scoperte ancor più che di invenzioni. Termini si sforza di dimenticare l’effetto per concentrarsi unicamente sul processo: egli ci offre un “oggetto-cognitivo” anziché un “oggetto-contemplativo”, ci permette cioè di interrogare non tanto le singole opere ma l’idea stessa della scultura, il suo progetto. In definitiva l’artista cerca di negare una forma irreversibile a favore di un dispositivo aperto che ne attesta la presenza e che, al contempo, presuppone un istante e un’attesa. Come ammette lui stesso, l’attesa – che è sia “aspettativa fiduciosa”, sia “avventura investigativa” – è un tema seminale che data ai primissimi anni del Duemila, allorquando viene realizzata l’opera Celare l’attesa [2001], uno stampo contenente la fusione di un lingotto che non può essere visto da nessuno (scultura come metonimia: contenitore e contenuto coincidono, formalmente e concettualmente). Eclissando il risultato finale, l’artista ci obbliga a entrare nel vivo della creazione, perché ciò che noi vediamo è la matrice di un pensiero che si sta ancora formando e fissando sotto i nostri occhi.
Luciano Fabro sosteneva che l’Arte «non è soggetto ma argomento di qualcosa», ed effettivamente è ciò che si propone anche Termini. Egli cerca di argomentare il linguaggio plastico, ne fa una “materia d’arte” che non può più essere ricondotta unicamente a uno stile, a categorie, codici o sistemi formali. A riprova di quanto detto poc’anzi, la scultura Reperto [2014] sfocia in una lenticolare verifica della propria disciplina, sicché l’opera d’arte non può più essere un oggetto inerte ma l’esito di un pensiero che si è incarnato. Per Termini la scultura è una necessità inalienabile oltre che un incessante rovello, un’intuizione formalizzata ma pur sempre dubitativa. L’artista si impegna a dimostrarci cos’è l’arte anziché cercare di spiegarcelo, in pratica ne sopravanza il significato aneddotico per concentrarsi sull’esperienza stessa della scultura, il suo essere “in situazione”. La questione nominale viene dunque aggirata attraverso opere assertive che non pretendono di definirsi a priori.
La scultura tradizionale non sempre è stata concepita in rapporto con ciò che gli stava intorno, quel “circostante” che nell’arte contemporanea diventa “circostanza imprescindibile”. Brian O’Doherty ha spiegato che l’ambiente è un fattore dell’equazione estetica: «Se un tempo la galleria trasformava tutto quello che vi si trovava in arte (e ogni tanto lo fa ancora), i nuovi media hanno capovolto il processo: ora sono loro a trasformare incessantemente la galleria a loro piacimento». Dagli anni Sessanta fino a oggi, molti artisti hanno continuato a interrogarsi sull’identità degli spazi espositivi. Nel caso di Termini non si tratta di un intervento teso a contestare il sistema dell’arte, bensì di un atteggiamento analitico che riflette sul contesto dell’opera, e più precisamente sul ruolo dei musei e delle gallerie d’arte. Paradigmatica è la mostra “Pregressa” del 2016 in quanto esautora il tradizionale momento espositivo a favore di un allestimento in itinere. L’artista ha infatti deciso di mettere lo spettatore nelle condizioni di essere coinvolto – almeno idealmente – nelle fasi antecedenti la mostra, motivo per cui l’allestimento assume l’aspetto di un cantiere aperto. Essenzialmente, ed efficacemente, Termini ha deciso di “contestualizzare” i materiali con cui ha sempre intrattenuto una vivace dimestichezza, allo scopo di interrogare l’ambiente espositivo. Operando su uno scarto tra gli oggetti e il contesto, l’artista ha cercato di svuotare il contenitore, ossia la galleria, dal suo contenuto abituale, vale a dire l’opera d’arte intesa come manufatto-feticcio. Dopo essersi confrontato con la struttura della galleria, Termini ha ragionato sulle peculiarità dello spazio, le cui sale si sviluppano in altezza anziché in profondità; proprio per questo motivo ciò che si trova in alto è stato portato a livello dello sguardo, e ciò che normalmente si vede è stato invece occultato. Il duplice intervento, finalizzato a una messa in evidenza e a una messa in discussione dell’assetto espositivo, pone lo spettatore al centro di una riflessione metodologica, svelando e al contempo dissimulando la genesi di una (propria) mostra.
Suddiviso in due ambienti, l’allestimento di “Pregressa” è stato concepito come unitario e complementare nonostante il suo atteggiamento avversativo. Come di consueto, l’artista insiste nel rendere visibile un “lavoro in corso” che sappia alimentare l’attesa e l’aspettativa del pubblico. La prima sala presenta una situazione di sospensione: il binario delle luci è stato rimosso dal soffitto e adagiato temporaneamente su dei cavalletti in metallo. Destrutturando la funzione dell’impianto elettrico, l’artista obbliga le persone a prestare maggiore attenzione a ciò che effettivamente permette loro di vedere/leggere le opere. Rispetto alla “messa in evidenza” dei neon, la seconda sala è l’esatto opposto della precedente: le pareti della galleria sono state ricoperte con dei pannelli che di norma delimitano i cantieri in costruzione, mascherando lo svolgimento dei lavori. Nascondendo le pareti, le pannellature ottundono lo sguardo del visitatore, incrinando la sua abituale percezione dello spazio espositivo.
Per l’artista è importante che ogni opera si lasci permeare dall’architettura che la ospiterà. Chiarificatrice di questo atteggiamento è la mostra “Grado di Tensione” del 2015 in cui il battiscopa in marmo è stato divelto e distanziato dalle pareti, sottraendo spazio allo spazio espositivo. Con questo gesto l’artista ha inteso ridefinire il perimetro della galleria, creando un ipotetico interstizio che pone il problema del limite e del confine, ma soprattutto riporta l’architettura alla sua fase iniziale e ideale, non già quella “di” costruzione ma ancora “in” costruzione.
Dello stesso avviso è anche l’installazione realizzata alla Fondazione Pescheria di Pesaro, dove un’architettura longitudinale è stata innestata all’interno della circolarità dell’ex chiesa del Suffragio. Si tratta dell’armatura (da qui il titolo dell’opera) di un edificio, uno scheletro di ferro e legno che definisce un nucleo cadenzato da otto colonne. L’armatura che l’artista ha realizzato per la formatura dei pilastri è in rapporto paritetico con l’architettura, conscio del fatto che «l’arte costituisce l’aspetto riduttivo dell’architettura, ne costituisce l’autenticità. Ma quest’arte si costruisce, al pari delle altre arti, attraverso una sua tecnica; tecnica che è costituita dalla composizione architettonica». Ciò nondimeno, la struttura di Termini è priva di fondamenta e in nessuna cassaforma verrà mai colato il cemento. Ciò che noi vediamo effettivamente è un’architettura incompiuta e derelitta, ossia una rovina priva di storia vissuta.
Il cemento, il ferro e il legno, così come il vetro, il cartongesso e i tubi zincati, sono elementi di un’archeologia industriale che è ancora possibile riconfigurare/risignificare, senza venir meno all’ambiguità che connota tutta la ricerca dell’artista. Si veda ad esempio l’intervento Necessariamente tesa [2014] ideato per il Museo d’Arte Contemporanea di Lissone, in cui fasce in nylon corrono lungo l’estremità superiore del colonnato che cinge le scale. La trazione esercitata sull’architettura potrebbe essere scambiata per lavori di messa in sicurezza dell’edificio, suggerisce cioè un’attesa, un qualcosa – forse un restauro? – che deve ancora compiersi. Ma è solo un infingimento, perché il calembour proposto da Necessariamente tesa è una riflessione sull’identità del Museo, spazio relazionale in cui non è ammissibile allentare la “tensione” che pervade la cultura.
L’anno dopo il concetto viene portato alle estreme conseguenza con Grado di Tensione [2015], ove le fasce in nylon si estendono in modo minaccioso, creando una costante trazione tra i cavalletti in ferro utilizzati per agganciare i paranchi e le finestre accatastate al lato opposto. Puntellate contro le colonne della galleria, la struttura in ferro e quella in legno innescano l’ennesima attesa, che è sempre portatrice di inquietudini; viene infatti da chiedersi se l’architettura resisterà o cederà alla pressione esercitata dall’opera? Ma l’attesa è anche una situazione di sospensione, aspetto che Termini ha voluto ribadire prelevando le persiane da uno dei tanti edifici che nel centro storico di Palermo versano in condizioni a dir poco fatiscenti. Non potendo far fronte agli oneri dei restauri, molti edifici vengono rafforzati con dei blocchi che danno stabilità alle parti cave delle strutture (porte, finestre, eccetera), in realtà tale provvedimento è anche un modo per impedire agli indigenti o ai dissidenti di occupare abusivamente i palazzi. Affascinato dalla tante “case cieche” della città, l’artista ha voluto creare una sorta di Panopticon, una soglia in cui è consentito osservare da dentro verso fuori, e viceversa, rendendo manifesto sia il degrado sia le tensioni che serpeggiano nell’urbe palermitana.
Nella maggior parte dei casi Termini si trova a filosofeggiare sull’immateriale, su ciò che è ancora invisibile: egli medita sull’attesa che lo condurrà a un “attraversamento-verifica” che si dà come pratica effettiva. Non un fare estetica, come lui tiene a precisare, ma un fare che potrà divenire estetica e che noi dobbiamo ricercare là dove meno ci aspetteremmo di trovarla, vale a dire nell’opera in fieri. È quanto si proponeva la mostra “Pull”, titolo che rimanda a un’azione non più esperibile direttamente, ma di cui lo spettatore può vedere le conseguenze, stabilendo una relazione tra una colonna di piattelli per il tiro a segno – Disarmata da se stessa [2012] – e i frammenti disseminati a terra. Ebbene, se i muri appaiono martoriati da abrasioni ed escoriazioni, il pavimento è invece imperlato da schegge di un intenso color arancione. In questo frangente Termini dimostra che la carica creativa è inversamente distruttiva: anziché essere bersagliati dai proiettili, i piattelli hanno crivellato le pareti della galleria convertendosi in armi offensive. Sovvertendo il ruolo della galleria, solitamente concepito come uno spazio da occupare, l’opera si ribella e cerca di sottrarsi alla prigionia delle proprie convenzioni. Premesso che ogni opera d’arte serba in sé il proprio carattere belligerante – tant’è vero che le parole bellus e bellum condividono la stessa radice etimologica – ciò che ci sembra lesivo è in realtà innocuo e inerte nel momento in cui i dischetti sono impilati gli uni sugli altri e il braccio del lanciapiattelli è “disarmato”.
Si è detto che Termini assembla anziché scolpire. Torniamo allora al classico concetto della composizione sviluppato in pittura. E non per caso: opere come Delimitare uno zona sospesa [2009], In assenza di diagonale [2011] e Caduta libera [2011] palesano una prossimità con la pittura, e non soltanto perché la loro configurazione segue la verticalità delle pareti. Oltre a ciò, si noti il valore cromatico dei gialli, degli azzurri o dei rossi che disattendono la grisaglia metallica e monocromatica dell’edilizia. Non v’è dubbio che sarebbe oltremodo riduttivo concepire la scultura come monogenica, vale a dire autonoma e autoreferenziale, ragion per cui Termini associa le motivazioni interne alla propria disciplina a sollecitazioni derivanti da altre tecniche artistiche, così come dalle pratiche connesse all’allestimento. Ad esempio in Necessita una posizione ben precisa [2015] vengono messe in evidenza le linee guida tracciate per conficcare i tasselli e le viti a parete, riferimenti che normalmente sono celati all’occhio dello spettatore. Ragionando sulle dinamiche degli allestimenti, l’artista concentra la sua attenzione su aspetti normalmente ritenuti marginali ma che risultano fondamentali nel sancire l’esistenza dell’opera d’arte.
I materiali eterogenei di Termini, uniti per forza d’attrazione, progettano (e aggettano in) uno spazio che può essere costruito e ricostruito di continuo, all’infinito. Non per nulla l’arte dell’assemblaggio è strettamente connessa all’attività del bricoleur, colui che mette insieme i pezzi rendendoli “ibridi”, essi continuano a essere ciò che erano ma al contempo ci appaiono diversi da se stessi. Emblematico è il caso di Bilancia [2015], un’altalena che è stata riportata al suo splendore attraverso l’abluzione in un bagno di zinco. Decontestualizzando l’oggetto, Termini lo assimila a qualsiasi altra sua opera, lasciando però nelle sedute la traccia di colture di muschi e muffe, preservando così la discrepanza tra l’atto dell’appropriazione e quello della sua manipolazione. All’opposto, le qualità e le proprietà intrinseche dei materiali vengono talvolta inficiate, come nel caso di Idea di coesione [2013], dove le fasce sono rese inani perché zavorrate nel cemento. Nell’uno e nell’altro caso perdura l’ambizione – tipica di ogni artista – di dominare il materiale «in modo che la sua opera risulti indipendente dal valore del materiale di cui è fatta».
Anziché limitarsi ad affinare le proprie problematiche, Giovanni Termini si ostina ad esternare l’autenticità/autorialità della scultura. Egli non sancisce una concezione, né un comportamento, bensì una condizione (d’esistenza) che avvera uno “spazio liberato” dove l’immaginazione e la razionalità si esercitano e possono finalmente estrinsecarsi. Come detto in precedenza, Termini interroga un vuoto già “informato” che attende di essere convertito in forma estetica; e poiché l’arte ha una base semantica molto ampia, ne consegue che la sua visualizzazione non può essere da meno. Per concludere potremmo ben dire che la scultura non ha una forma in sé ma è la sua forma.
G. Termini, “Un’arte condivisa”, in Disarmata, catalogo della mostra alla Fondazione Pescheria di Pesaro, a cura di Ludovico Pratesi, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2013, p. 18.
Kazimir S. Malevič, Scritti, a cura di Andrei B. Nakov, Feltrinelli, Milano 1977, p. 200.
Testo apparso sull’invito della mostra “Zero: der neue Idealismus” alla Galleria Diogenes di Berlino nel 1963.
A. Zanchetta, G. Termini, “Il Tempo, lo Spazio e il Vuoto (che non c’è)”, Exibart n.73, Giugno 2011 p. 79.
Ibidem.
E. Villa, L’arte dell’uomo primordiale, Abscondita, Milano 2005, p. 48.
M. Augé, Che fine ha fatto il futuro?, Elèuthera, Milano 2009, p. 47.
L. Fabro, Arte torna arte, Einaudi, Torino 1999, p. 242.
B. O’Doherty, Inside the White Cube, Johan&Levi, Monza 2012, p. 128.
A. Rossi, “Introduzione a Boullée”, prefazione a È.-L. Boullée, Architettura. Saggio sull’arte, Einaudi, Torino 2005, p. XXX. A. Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano 2005, p. 73.